Mostro mio coriaceo,
sei ancora qui. Siamo ancora qui.
Che traguardo, di già!
Si dice che la misura del successo di… un percorso di psicoterapia stia nella gestione delle Sante Sfeste. Com’è andata (la tua terapia), quindi? Come stai, a gennaio in corso e bisestile avviato? La pressione è calata? Quanti mostri nuovi hai catalogato, a casa de nonna? Aggiornasti il Pokédex?
Ti ho garantito mostri, in questa seconda stagione della Guida Pennivendola (la s02e01 puoi recuperarla qui; la prima stagione aveva invece tutt'altra forma). Scrittura, identità, linguaggio, si diceva – e mostri. Provo a mantenere la parola data. Al solito, dunque: SIGLA.
1. Cavità e melasse
Sono stata alle cave. Certe cave specifiche. Nelle scorse settimane, vacanziere perché vacanti e quindi pure cave, ho ottenuto l’accesso guidato a un certo specifico giacimento di travertino e, con faccia di tolla ormai proverbiale, ho sottratto a titolare e capocantiere tutte le risposte possibili.
Ma ci torno dopo, alla specificità delle cave (e ci tornerò poi).
Intanto: com’è stato? Gallo said it best. A dirla tutta, più volte ho rischiato di azzopparmi malamente (piene di… cavità, le cave, manco a dirlo, e il mio storico di lost time accidents non è lusinghiero), più volte ho retto, impavida.
Perché è stato? Perché il mostro prossimo m’infesta; e credo — penso, spero — abiti o abbia abitato là dentro. Nelle cave.
È apparso nella mia testa tre anni fa, durante l’interminabile cerimonia religiosa che interessava due persone a me molto care – due muse-musette; poi però l’annus domini ventiventi è diventato quel che ben sappiamo e ho dovuto chiudere Nati Nuovi e il tempo mi ha rubato la penna e la vita m’ha scofanato il quaderno.
Ho preso appunti frenetici, a tratti. Solo questo.
Adesso invece – adesso it’s time. Adesso batte, batte, batte nei polpastrelli per uscire; il mostro prossimo, dico, non il quaderno.
(A te capita che l’idea – non necessariamente l’Idea, intendiamoci; anche solo un’idea, così, minuscola e indeterminativa – faccia la grazia di visitarti il cranio solo quando stai mortalmente melassandoti nel tedio?)
[A proposito di melassa, ugh. Non è straordinario che, nel solco anglofono, l’eccessiva lentezza sia resa proprio da espressioni come slow as cold molasses in January? Ecco. La cerimonia durante la quale mi è apparso il mostro era lenta così. Densa, appiccicosa, senza fine in vista. Dolce, però. Figurarsi.]
{Ancora sul tema, perdona, è hyperfocus. Se parliamo di melassa in gennaio… Hai mai sentito parlare del Great Molasses Flood? Un incidente mostruoso, è il caso di dirlo. Sai che nell’incredibile romanzo-monstre La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie) del mio fato madrino Leonardo G. Luccone il disastro della melassa entra di prepotenza e merita una visita tra le sue spesse, spesse pareti? Torneremo anche qui, promesso; i mostri non sono sempre senzienti. Intanto, su minimaetmoralia puoi recuperare la bella intervista che l’ottimo Liborio Conca fece a Luccone dopo l’uscita: la melassa compare in tutta la storica mostruosità. Riporto di seguito uno stralcio che mi sembra parli moltissimo dell’oggi}
Il capitolo «Boston è ogni cosa» è centrato sull’incidente della melassa (15 gennaio 1919) perché è la grande ferita silenziata di un paese che correva verso l’onnipotenza. È la prima incrinatura del modello americano, quando il sogno era sfumato all’orizzonte. «Fiumi di melassa» per produrre rum e munizioni. L’industria aumenta i volumi, si fa ingorda. Non è bastato l’avvertimento della Spagnola (che nella sola Boston uccise quasi cinquantamila persone e cinquanta milioni nel mondo). A Boston si respirava aria di puritanesimo, ci hanno messo un attimo a pensare che la punizione venisse dall’alto. Fatto sta che l’esplosione del serbatoio di melassa li manda in tilt (e come al solito danno la colpa a chi non c’entra – gli anarchici). Can can delle accuse a parte, l’incidente determina un capillare ripensamento dell’interazione uomo-industria e nasce l’idea di distanza di sicurezza, di pianificazione territoriale. In questo gli americani sono sempre stati superiori: imparano la lezione e cercano di non sbagliare.
Due cose mi danno da pensare: la melassa è un dolcificante associato ai giorni di festa; durante il processo alla società che gestiva il serbatoio (nel libro riporto i verbali reali degli interrogatori) il capoprogetto era ossessionato dal rispetto dei ritmi di produzione. Non aveva idea di cosa fosse successo, né del perché.
Per me il serbatoio rappresenta una crisi locale che ti dà il sentore della crisi universale. Fretta e ignoranza sono i nemici. In quel caso la risposta dell’uomo fu positiva, perché alla fine, grazie a una class action, prevalse il bene della comunità. Ma c’è quel titolo del Boston Herald che mi si è incollato addosso: Many Victims Buried under Sea of Sticky Fluid Flooding Atlantic Avenue; mi ha trascinato verso lo tsunami in Asia del 2004, verso la furia anarchica, verso le Br, verso il nostro balbettare quando dobbiamo affrontare i problemi che oltrepassano il nostro guscio. È questo il nodo: usiamo metafore per parlare di quello che ci accade («l’epidemia è uno tsumani sulle nostre vite»), ma rimaniamo muti rispetto a ciò che ci succede dentro. Eppure siamo completamente rapiti dal nostro spazio interiore, per molti di noi il mondo è solo quello che sta lì dentro. Come possiamo sperare di avere una coscienza ambientale, di sentire una responsabilità per chi verrà dopo di noi.
2. Bussole e scalpelli
Batte nei polpastrelli, dicevo, l’idea-Mostro, per uscire. Ma vado spesso fuori allenamento, io. Non le sto dietro, all’idea. Non so bene con che pinza, con che forcipe tirar fuori più d’un brandello alla volta.
Ché scrivere è un gesto, dicono quelle brave e quelli bravi: si affina si migliora si lima si pota. Si lucida. Si esercita. Fino a portarci dalla creatività alla creazione, atto para-divino che da sé, senza adeguati strumenti, non avverrebbe mai.
Ecco, gli strumenti.
(E le cave. À propos.)
C’è più di una bussola che ho sottratto alle varie persone che, a più titoli, si sono messe a ragionare sulla scrittura davanti a me; che sia accaduto in aula o durante letture private, che a ragionarci fosse Piperno o Varvello o Siti o qualche regista in aule Holden – o il buon Gallo, che di tutto il baraccone pennivendolo è volente o nolente la persona che m’ha insegnato di più in assoluto –, io credo che scrivere storie passi da uno e un approccio soltanto: quello della scultura.
Vegno e mi spieco – al solito: Camilleri.
Torniamo alle cave. Scendiamoci in mezzo, ai mostri di marmo. Ai sepolcri dei titani. Agli immondi panettoni minerali. Dicono le bussole che Michelangelo scegliesse personalmente i blocchi di marmo; nelle cave di Carrara si guardava intorno e, in mezzo alle forme grezze, vedeva già Laocoonte e i suoi figli assaliti dalle serpi marine (per poi forse seppellirli e rivenderli, mostruoso e geniale storyteller bugiardo. Forse, eh). Ciò che è certo è che tu e io, in una cava, non distinguiamo nemmeno il travertino romano dal travertino noce – o perlomeno questa è una delle cose che ho imparato, tra le altre, nella gita al Domitillaverse.
Sarà che la parola è tutt’altra materia, meno pietra e più polpa; sarà che tu e io non siamo precisamente geni immortali, diciamocelo; ma abbiamo in comune una cosa, tu, io e Michelangelo. Senza strumenti – senza scalpello – la forma a cui tendiamo non emergerebbe mai dal blocco.
Scrittura è sottrazione. Questa è la bussola.
Vomiti sulla pagina la secchiata di futuri detriti, cerchi uno scalpello, scheggi e scrolli via tutto ciò che non è, conservi quel che resta.
Almeno, per me funziona così.
E al popolo?!
L’INCONTRO PENNIVENDOLO – PER TE CHE LEGGI, SCRIVI (e a volte fai pure di conto)
Al popolo, si diceva, frega… il giusto, di come funziono io. A me stessa frega il giusto – non molto, cioè. L’obiettivo altissimo mio, nella vita, è sempre fare come Homer che rientra nel cespuglio, come ognun sa.
Nella risemantizzazione del meme, la mia, fare come Homer significa levarsi di turno e fare spazio ad altre voci.
Perché vale sempre la pena chiedersi e chiederci come funzionano ben altre teste, ben altre penne; per esempio, oggi, come funziona la scrittrice, formatrice e pezzo-di-cuore Espérance Hakuzwimana.
Le ho posto tre domande.
D: C’è chi dice che scrivere, come scolpire, abbia a che fare con la sottrazione di quanto è superfluo. Se non la scultura, a quale altra forma di espressione paragoneresti istintivamente la scrittura?
E: Una delle cose più oneste che dico sempre di me è che sono diventata una scrittrice altrimenti sarei stata una bugiarda seriale, o patologica, un aggettivo o l’altro non cambia. Inventare, esagerare, sguazzare e sbrodolare nella finzione è stata sempre (e lo è ancora) la mia attività preferita. Forse nella mia infanzia di menzogne (vere e finte) la cosa più bella, per me, è sempre stata una particolare cura per i dettagli. Quando narravo una bugia mi impegnavo per renderla vera, per aggiungere la polvere alle mensole e le punte chiare dei capelli a una bambina vittima di un incidente d’auto mai avvenuto. Per me scrivere è lavorare con la finzione, levigarla così tanto da renderla bella, da rendere divertente o commovente la sospensione della realtà. Stare dentro alle mie bugie mi ha insegnato a uscirne fuori in tempo e guardarle da fuori come storie. Forse è anche per questo che, se penso alla scrittura, penso al cinema o alla pittura. Quell’attimo di meraviglia in cui su una tela o su uno schermo rivedi l’opera che hai creato e sai – lo sai fino in fondo – che sugli altri avrà un effetto di stupore. Magia dell’arte, dicono. Che non a caso fa rima con bugia.
D: Uh, le bugie. Rieccole. Adoro. Gran tormentone, in aula: questo sono le storie, balle strutturate. Hanno a prescindere un che di felicemente mostruoso. Sarà che la Guida Pennivendola è dedicata ai mostri, come sai: quelli che hanno ragione, mi piace sempre dire, e quelli che non ne hanno – per mapparli, perché no. Ecco: chi o cosa è, per te, mostro?
E: Dodici anni fa, prima che mi si spezzasse il cuore in due per permettermi di scappare da quello che non ero (anche dalla mia versione bugiarda, soprattutto da quella), pensavo che i mostri fossero tutti attorno a me. Solo che erano nascosti dalla nebbia della bassa bresciana e dalle pareti accecanti di un mondo sempre troppo bianco per quello che ero senza saperlo. Poi a un certo punto, dopo incontri, muri buttati giù a forza, l’appuntamento del venerdì alle 13 in via Philadelphia con una dottoressa e la resa – che a volte è pure meglio della pace – ho capito che i mostri non sono, ma sanno. Sanno sempre chi siamo, che cosa sogniamo, cosa ci ripetono in testa le voci dei nostri genitori anche se siamo diventati adulti e sanno anche come andrà a finire tutta la storia. Lo sanno sempre. Per questo a un certo punto ho smesso di combatterli e di risposta tento di trascriverli. A volte è divertente, a volte vengono a stropicciarmi i sogni, a ridimensionarmi i desideri. Ma. Perché c’è sempre un “ma” più grande di tutte le fabbriche dei mostri del mondo. E il mio ma è che, oltre a saperci, i mostri ci mettono alla prova. Costantemente. Ci sfidano perché sospettano di poter vincere ma, sotto sotto, pure loro hanno paura di noi. Così alla fine credo che stia tutto lì: in quel continuo non volerci far sgamare da loro e nel loro continuo non voler farsi sgamare da noi. È molto più simile a un gioco; tipo nascondino. Chi perde conta, e i miei mostri non lo sanno ancora, ma col tempo ho imparato ad arrivare a dei numeri altissimi. Mica perdo io! Gioco ancora: dentro non c’è ancora buio.
D: Il gioco più bello del mondo. Un’altra delle bussole che ho raccolto dice che questo è, scrivere – ricevere le chiavi della stanza dei giochi... Ma, oltre a essere una voce potentissima e il serbatoio delle storie che scrivi, sei anche una delle lettrici più forti che conosco. Passata la frenesia festiva in cui chiunque raccomanda strenne a chiunque, quindi, ti chiedo: ci nomini due (proprio due!) titoli che hai letto da poco e che, secondo te, meritano attenzione?
E: Il primo è Catene di gloria, Nana Kwame Adjei-Brenyah (SUR, 2023 trad. Martina Testa). Stati Uniti, prossimo futuro in cui le carceri del paese entrano a far parte di un sistema avanzato in cui chi è accusato di crimini efferati può provare a liberarsi solo partecipando a un torneo di morte e violenza. Lo scelgo perché una storia così vera e così surreale insieme non l’avevo mai letta e di tutte le mie letture dell’anno scorso è quella che mi ha tenuta incollata alle pagine. Ho tifato per gli ultimi, ho sussultato di stupore, ho sentito il dolore e alla fine, nonostante tutto, mi sono detta “scelgo l’amore anche io”.
Il secondo è I miei piccoli dispiaceri, Miriam Toews (Marcos y Marcos, 2015 trad. Maurizia Balmelli). Due sorelle, un passato in comune e un futuro da riscrivere ancora e ancora ma, per la prima volta, con le parole dell’amore e di un legame indissolubile e feroce. Lo scelgo perché a Natale mi manca sempre la famiglia che ho dentro la pancia ma non a tavola, nelle foto, appiccicata negli anni o chissà dove. Incontrare Yoli ed Elf è stato un po’ come sanare la ferita, dopo averla guardata a fondo ricordandomi perché il sangue a volte è denso.
BONUS TRACK. Il sangue denso, appunto, e le sue trappole. Da schivare A Gambe Larghe
Camilleri, gran visir dei contaballe nonché feticcio formale che spesso evoco qui e altrove, chiamava sfunnapedi certe trappole mostruose: ci fai affidamento, ti ci sposti sopra e poi cedi rovinosamente, a farti male — altro che solido marmo, quello su cui contavi.
Bene: tutto ciò che ti ho sottoposto oggi sa esserlo, una trappola. Le cave, la melassa, le bugie. E poi c’è il sangue che cita anche Espérance, uno sfunnapedi più grande ancora.
Anzi: il sangue è La Trappola che colora gennaio, per me. Ché quattordici anni fa, di questi tempi, abitavo mostruosità che un giorno — non oggi — riuscirò magari a scalpellare. E solo l’anno scorso, nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, succedeva questo. Così, da allora, con Benedetta Petroni e Sara Bertazzini ho deciso di mappare un percorso tra le trappole, qui. Per evitarle. Evitarle ad altre persone, soprattutto.
Così è nato un podcast che si chiama A Gambe Larghe; qui e sotto trovi i primi centonovanta secondi. Cosa gli accadrà intorno non ha ancora senso dirlo; AGL nasce cautamente indipendente e invece forse, tuona qualcuna, merita sin da subito più ascolto. Più ascolti. Un supporto vero. Ma non è facile districarsi tra realtà che non consentono alcuna libertà produttiva e realtà che, al contrario, di libertà con queste storie di dolore se ne piglierebbero fin troppe.
Nel frattempo proviamo a onorare la memoria di gennaio, quella del sangue, a modo nostro.
Riconoscerai forse, in questi tre minuti iniziali, una certa voce specifica: è Vera Gheno, generosa e istantanea supporter del progetto. Ha messo il suo dolore al servizio del nostro e di quello altrui: con lei ci sono Antonella Lattanzi, Stella Pulpo, Chiara Becchimanzi e tantissime altre, più o meno riconoscibili o più o meno protette dall’anonimato – un coro anti-trappola. L’idea è che certi sfunnapedi di sangue, i più mostruosi, impariamo a scansarli insieme. Con le parole: servono sempre, quelle.
Ah, PS(sst): servono anche e soprattutto le tue. Parole, dico.
Se il progetto ti convince, se vuoi dare una mano a starcene fieramente in piedi e A Gambe Larghe (come faceva la furbissima Fearless Girl davanti a un certo mostro di bronzo), scrivimi, dillo in giro, insomma: